Massimo Leone
research: Seminar
La transustanziazione è un dogma per la teologia, un paradosso per la semiotica. La filosofia occidentale sente l’esigenza di definire la sostanza. La glossematica di L.T. Hjelmslev, cui si richiama molta semiotica strutturale, ne fornisce una concezione in chiave linguistica. La sostanza è materia formata dalla forma, sia sul piano dell’espressione che del contenuto. La relazione fra sostanze è ciò che dà luogo alla significazione.
Nell’Eucarestia, la materia visibile e percettibile del pane e del vino sembra non mutare, specialmente agli occhi di chi non crede; specie per tali occhi, non cambia neppure la forma del pane, sebbene spezzato e condiviso nella cena; non cambia la forma del vino, sebbene ripartito fra i commensali. Nel sacramento, tuttavia, si trasforma la sostanza di questo pane e di questo vino. Essi non divengono segno di qualcosa d’altro, bensì si transustanziano in un ente nuovo, che ha la materia e la forma del pane e del vino ma la sostanza del corpo di Cristo. La sfida alla fede risiede proprio nella difficoltà di credere a questo nuovo ente, il quale, pur apparentemente immutato nella materia e nella forma, è invece reso di sostanza diversa da una nuova meta-forma trascendente e invisibile, sia nelle sue cause che nei suoi effetti, la quale pone il pane e il vino come luogo di un nuovo contatto fra trascendenza e immanenza.
Questo dogma teologico, e questo paradosso semiotico, a prima vista non sembrano avere nulla a che vedere con le nuove tecnologie digitali, e in particolare con quelle immersive. Nei dispositivi e nelle rappresentazioni an-iconiche, una parte consistente della forza pragmatica dell’immagine, e più in generale del segno, si spende nel tentativo di persuadere o perlomeno di divertire (nel senso etimologico) rispetto alla presenza della rappresentazione. Da un certo punto di vista, però, la transustanziazione fa altrettanto: per quanto creatrice di simboli agli occhi del non credente, si offre come foriera di sacramento a quelli del credente; non attribuisce un nuovo senso arbitrario al pane e al vino ma in un certo senso ricrea il pane e il vino come se fossero non segni di una diversa semiotica, ma presenze di una nuova ontologia, legata al divino. L’Eucarestia dice che il pane e il vino nel Sacramento presentano una nuova metafisica.
In fondo, le tecnologie an-iconiche fanno altrettanto: propongono una rappresentazione semiotica come una manifestazione ontologica.
Vi è però, tra transustanziazione e an-iconismo, una differenza fondamentale: la prima non dissimula il pane e il vino né simula il corpo di Cristo, bensì transustanzia attraverso la parola. Nell’Eucarestia, è il logos che incarna il logos. È la performatività del linguaggio verbale che opera la transustanziazione. Tutti gli altri segni, dai gesti della cena al suo contesto, sono irrilevanti. Nell’an-iconismo, invece, non è la parola che simula o dissimula, bensì l’immagine. Per quanto accompagnata da altri segni, a inclusione di quelli verbali, è essa che si nasconde e pretende di scomparire. Il mutamento ontologico della transustanziazione non è per lo sguardo, ma per lo spirito. Se lo spirito crede, tuttavia, crede anche lo sguardo. Il mutamento semiotico dell’an-iconismo è invece per lo sguardo. Sembra quasi partire dal presupposto opposto: se lo sguardo crede, crederà anche lo spirito. Ma c’è qualcosa di affannoso in questo secondo procedimento; far credere a un’immagine che si trasmuta in realtà è una rincorsa continua, un agone asintotico con la miscredenza. Le realtà immersive, i deepfake, le immagini dell’intelligenza artificiale generativa sono forse un disperato tentativo di transustanziare senza la fede; ma si scontrano con un paradosso opposto a quello eucaristico; far credere attraverso l’immagine è forse impossibile. Le immagini sono forse il vero luogo dello scetticismo moderno, e della sua disperazione. Dove sono il pane e il vino delle nuove credenze digitali?
Massimo Leone è professore di Filosofia della Comunicazione, Semiotica Culturale e Semiotica Visiva presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, Professore di Semiotica presso il Dipartimento di Lingua e Letteratura Cinese dell’Università di Shanghai, membro associato di Cambridge Digital Humanities presso l’Università di Cambridge, Direttore dell’Istituto per gli Studi Religiosi presso la Fondazione Bruno Kessler di Trento e Professore Aggiunto presso l’Università di Caracas.
È stato visiting professor in numerose università nei cinque continenti. Ha scritto quindici libri come autore unico, curato oltre sessanta volumi collettivi e pubblicato più di seicento articoli in semiotica, studi religiosi e studi visuali. Ha vinto un ERC Consolidator Grant nel 2018 e un ERC Proof of Concept Grant nel 2022.
È direttore responsabile di Lexia, la rivista di semiotica del Centro di Ricerca Interdisciplinare sulla Comunicazione dell’Università di Torino, co-direttore di Semiotica (De Gruyter) e co-curatore delle collane editoriali I Saggi di Lexia (Roma: Aracne), Semiotics of Religion (Berlino e Boston: Walter de Gruyter) e Advances in Face Studies (Londra e New York: Routledge).
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La transustanziazione è un dogma per la teologia, un paradosso per la semiotica. La filosofia occidentale sente l’esigenza di definire la sostanza. La glossematica di L.T. Hjelmslev, cui si richiama molta semiotica strutturale, ne fornisce una concezione in chiave linguistica. La sostanza è materia formata dalla forma, sia sul piano dell’espressione che del contenuto. La relazione fra sostanze è ciò che dà luogo alla significazione.
Nell’Eucarestia, la materia visibile e percettibile del pane e del vino sembra non mutare, specialmente agli occhi di chi non crede; specie per tali occhi, non cambia neppure la forma del pane, sebbene spezzato e condiviso nella cena; non cambia la forma del vino, sebbene ripartito fra i commensali. Nel sacramento, tuttavia, si trasforma la sostanza di questo pane e di questo vino. Essi non divengono segno di qualcosa d’altro, bensì si transustanziano in un ente nuovo, che ha la materia e la forma del pane e del vino ma la sostanza del corpo di Cristo. La sfida alla fede risiede proprio nella difficoltà di credere a questo nuovo ente, il quale, pur apparentemente immutato nella materia e nella forma, è invece reso di sostanza diversa da una nuova meta-forma trascendente e invisibile, sia nelle sue cause che nei suoi effetti, la quale pone il pane e il vino come luogo di un nuovo contatto fra trascendenza e immanenza.
Questo dogma teologico, e questo paradosso semiotico, a prima vista non sembrano avere nulla a che vedere con le nuove tecnologie digitali, e in particolare con quelle immersive. Nei dispositivi e nelle rappresentazioni an-iconiche, una parte consistente della forza pragmatica dell’immagine, e più in generale del segno, si spende nel tentativo di persuadere o perlomeno di divertire (nel senso etimologico) rispetto alla presenza della rappresentazione. Da un certo punto di vista, però, la transustanziazione fa altrettanto: per quanto creatrice di simboli agli occhi del non credente, si offre come foriera di sacramento a quelli del credente; non attribuisce un nuovo senso arbitrario al pane e al vino ma in un certo senso ricrea il pane e il vino come se fossero non segni di una diversa semiotica, ma presenze di una nuova ontologia, legata al divino. L’Eucarestia dice che il pane e il vino nel Sacramento presentano una nuova metafisica.
In fondo, le tecnologie an-iconiche fanno altrettanto: propongono una rappresentazione semiotica come una manifestazione ontologica.
Vi è però, tra transustanziazione e an-iconismo, una differenza fondamentale: la prima non dissimula il pane e il vino né simula il corpo di Cristo, bensì transustanzia attraverso la parola. Nell’Eucarestia, è il logos che incarna il logos. È la performatività del linguaggio verbale che opera la transustanziazione. Tutti gli altri segni, dai gesti della cena al suo contesto, sono irrilevanti. Nell’an-iconismo, invece, non è la parola che simula o dissimula, bensì l’immagine. Per quanto accompagnata da altri segni, a inclusione di quelli verbali, è essa che si nasconde e pretende di scomparire. Il mutamento ontologico della transustanziazione non è per lo sguardo, ma per lo spirito. Se lo spirito crede, tuttavia, crede anche lo sguardo. Il mutamento semiotico dell’an-iconismo è invece per lo sguardo. Sembra quasi partire dal presupposto opposto: se lo sguardo crede, crederà anche lo spirito. Ma c’è qualcosa di affannoso in questo secondo procedimento; far credere a un’immagine che si trasmuta in realtà è una rincorsa continua, un agone asintotico con la miscredenza. Le realtà immersive, i deepfake, le immagini dell’intelligenza artificiale generativa sono forse un disperato tentativo di transustanziare senza la fede; ma si scontrano con un paradosso opposto a quello eucaristico; far credere attraverso l’immagine è forse impossibile. Le immagini sono forse il vero luogo dello scetticismo moderno, e della sua disperazione. Dove sono il pane e il vino delle nuove credenze digitali?